da “Tracce.it” – Febbraio 2013
a cura di Lorenzo Margiotta
Forse l’unico vero maestro italiano della fine del Novecento. Una riflessione teorica e attività pratica. A muoverlo era lo stupore. E la certezza che «nella vita come in architettura, se cerchiamo una cosa non cerchiamo solo quella»Aldo Rossi è uno dei protagonisti dell’architettura internazionale del secondo Dopoguerra e, forse, l’unico vero maestro italiano della fine del Novecento. Il personaggio, a sentire chi l’ha conosciuto, era oltre che straordinario, unico.
Nato nel 1931 a Milano, matura, fin da studente, una sensibilità per l’architettura estremamente personale, come testimoniano i suoi racconti su quegli anni. «Al Politecnico di Milano penso di essere stato uno dei peggiori allievi anche se oggi penso che le critiche che mi venivano rivolte sono tra i migliori complimenti che abbia mai ricevuto. Il professor Sabbioni mi dissuadeva dal fare architettura dicendomi che i miei disegni sembravano quelli dei muratori o capomastri di campagna che tiravano un sasso per indicare all’incirca dove si doveva aprire una finestra. Questa osservazione, che faceva ridere i miei compagni, mi riempiva di gioia».
A condurlo all’architettura, come lui stesso racconta nella Autobiografia scientifica (1981), fu un verso liceale di Alceo: «”O conchiglia marina / figlia della pietra e del mare biancheggiante / tu meravigli la mente dei fanciulli”. La citazione è circa questa e contiene i problemi della forma, della materia, della fantasia, cioè della meraviglia», il sentimento che coincide di più con il suo modo di concepire l’architettura. «Si passavano intere mattine con gli strumenti a misurare piazza Leonardo da Vinci… Le triangolazioni non si chiudevano, e io trovavo in quella incapacità di chiudere queste triangolazioni anche qualcosa di mitico, come una dimensione in più dello spazio».
Ma gli anni più formativi sono quelli nella redazione della rivista Casabella-Continuità, allora diretta da Ernesto Nathan Rogers, che stava lavorando alla Torre Velasca, e nello studio di Ignazio Gardella. Guardava anche ai maestri del Movimento Moderno europeo, come l’austriaco Adolf Loos; agli architetti neoclassici, come Etienne Louis Boullèe e Karl Friedrich Schinkel; al movimento della pittura metafisica italiana, e in particolare al celebre ciclo delle piazze d’Italia di Giorgio de Chirico.
Quando, nel 1965, diventa professore incaricato al Politecnico, le sue lezioni nelle aule del Trifoglio sono gremite di studenti, seduti persino sugli scalini, in un’università attraversata dalla contestazione. Nel 1971 l’intero consiglio di facoltà di architettura viene sospeso dall’insegnamento, per aver condotto una sperimentazione didattica senza l’approvazione del ministero. Tra i protagonisti c’è anche Aldo Rossi che riavrà una cattedra in Italia (alla Scuola di architettura di Venezia) solo nel 1975. Nel frattempo sarà invitato a insegnare a Zurigo, in Olanda e nelle più importanti università americane.
La sua opera, inscindibilmente pratica e teorica, ne fa uno degli esponenti principali di una stagione di rifondazione per l’architettura italiana, insieme a Vittorio Gregotti, Paolo Portoghesi, Guido Canella e Carlo Aymonino.LA CITTÀ COME TEATRO
«Il teatro è molto simile all’architettura perché riguarda una vicenda; il suo inizio, il suo svolgimento e la sua conclusione. Senza vicenda non vi è teatro e non vi è architettura. È anche commuovente che ognuno viva una sua piccola parte». (Aldo Rossi)La prima opera che fa di Rossi uno dei protagonisti di quella generazione è un libro, L’architettura della città, pubblicato nel 1966, che diventa ben presto una pietra miliare nella letteratura architettonica internazionale. In esso, oltre alla classificazione analitica delle tipologie edilizie della città nella storia, è contenuta un’idea straordinaria di città intesa come «scena fissa delle vicende dell’uomo, carica dei sentimenti di intere generazioni, di eventi pubblici, di tragedie private, di fatti nuovi ed antichi». Questa idea che la forma della città sia legata alle vicende degli uomini che la abitano era un messaggio semplice ed elementare ma folgorante nella sua forza e unicità, maturato non sono dagli studi ma dall’esperienza dell’architettura. Sono memorabili, nei racconti dei suoi allievi, le lunghe passeggiate che, più volte al giorno, amava fare con loro per le vie del centro di Milano. Si partiva dallo studio in via Maddalena, con le pareti rivestite dei suoi quadri e gli scaffali ricoperti degli oggetti, caffettiere e bollitori, da lui disegnati. Si procedeva per piazza Missori verso l’università Statale del Filarete, quindi la Torre Velasca, e poi indietro in piazza Duomo, fin dentro la cattedrale. Andava sempre in due perché gli piaceva parlare mentre camminava. Diceva: «È come se fossimo su un palcoscenico è come se fossimo in un teatro, ognuna di queste architetture è un personaggio, ognuno di questi personaggi ha un carattere e noi percorrendo questo palcoscenico mettiamo insieme questi caratteri e viviamo questa straordinaria esperienza».
Progettare un edificio urbano significa allora porsi il problema della costruzione di un personaggio che abbia un suo carattere. Un carattere che non può che essere costruito sulla ragione più profonda del “personaggio”, sulla sua identità. L’architettura è perciò intesa da Aldo Rossi non come tecnica ma come conoscenza: conoscenza della realtà esterna, conoscenza del senso degli edifici, delle istituzioni civili, dell’identità delle cose. La casa dove abitiamo, la scuola dove studiamo, la fabbrica dove lavoriamo devono avere forme che rendono i luoghi della nostra vita riconoscibili per quello che sono. Forme elementari, forme facilmente riconoscibili, forme “realiste e popolari”.
Così scrive Antonio Monestiroli, architetto milanese che ha avuto in Rossi uno dei suoi maestri: «Tutto per Aldo era spettacolo: la realtà esterna era spettacolo, la vita quotidiana era spettacolo, tutte le più piccole cose della sua vita facevano parte dello spettacolo. E questo spettacolo andava messo in scena». Come nella sorprendente invenzione del Teatro del mondo, costruito per la Biennale di Venezia (1979), un grande giocattolo di legno galleggiante, dai colori vistosi, ancorato accanto alla mole della Basilica della Salute.
«Un nuovo e affascinante punto di vista che mi consentiva di capire i rapporti tra tutte le arti della rappresentazione, fra l’architettura e il cinema, la pittura, la letteratura», continua Monestiroli: «Parlava di Luchino Visconti, di Thomas Mann, di Mario Sironi, si capiva che ciò che teneva insieme questi artisti, e lui a loro, era il punto di vista da cui tutti loro guardavano la realtà: la realtà come spettacolo, la città come scena fissa della vita degli uomini, come luogo di cui stupirsi ogni giorno, così come ci si stupisce della propria esistenza. È lo stupore, forse, il carattere più evidente della straordinaria personalità di Aldo Rossi, la sua capacità di stupirsi sempre, dell’architettura come della vita».LA “CITTÀ ANALOGA”
«La mia più importante educazione formale è stata l’osservazione delle cose; poi l’osservazione si è tramutata in una memoria di queste cose. Ora mi sembra di vederle tutte disposte come utensili in bella fila; allineate come in un erbario, in un elenco, in un dizionario». (Aldo Rossi)Nel 1976 Aldo Rossi disegna, secondo lo stile degli antichi, una città immaginaria composta dal collage di progetti, immagini e luoghi da lui amati. La chiama “Città analoga”, ricordando con questo titolo la mescolanza di desiderio, sogno e ragione presente in ogni autentico progetto di architettura. È questa la cifra di una poetica personalissima in cui emergono, insieme al rigore e alla razionalità dei principi, nostalgie dell’infanzia e una specialissima tenerezza per il mondo della Lombardia e della sua storia: le grandi corti delle cascine di campagna, i sacri monti, le «ville abbandonate» sul Lago maggiore, suo luogo d’affezione per eccellenza, e ancora il San Carlone di Arona o il David di Tanzio da Varallo.
Un elenco tra immaginazione, memoria e analogie, in cui si consacra la sua figura di architetto-artista. Così il ricordo dei lunghi ballatoi operai e delle case di ringhiera si trasforma nella Casa al Gallaratese di Milano (1967); i fari visti nel New England prendono nuova forma nel Teatro del mondo di Venezia; le cabine da spiaggia dell’Elba dove, da bambino, trascorreva la villeggiatura rivivono nella Casa dello studente di Chieti (1976). «Il progetto è forse ritrovare questa architettura dove filtra la stessa luce, il fresco della sera, le ombre di un pomeriggio d’estate».VITA E ARCHITETTURA
«Perciò il dimensionamento di un tavolo è molto importante; non, come pensavano i funzionalisti, per assolvere una determinata funzione ma per permettere più funzioni. Infine per permettere tutto ciò che nella vita è imprevedibile. Nei miei ultimi progetti cerco solo di porre delle costruzioni che per così dire favoriscano un evento». (Aldo Rossi)Aldo Rossi intende l’architettura «semplicemente come il luogo dove si svolge la vita». In essa l’avvenimento prevale sul progetto, l’uso sulla funzione. Ne è un esempio lo straordinario porticato della Casa al Gallaratese, un luogo “magico”, come sospeso e aperto all’imprevedibile accadimento, tra le ombre delle due gigantesche colonne. «In certi ultimi progetti o idee di progetti cerco di fermare l’avvenimento prima che esso si produca come se l’architetto potesse prevedere, e in certo modo lo prevede, lo svolgersi della vita», scrive nelle pagine della Autobiografia: «Per questo l’architettura può essere bella prima del suo uso, è l’attesa, la camera matrimoniale predisposta, i fiori e gli argenti prima della messa grande».
«MA È CERTO CHE IL COMPIMENTO ANDAVA OLTRE L’ARCHITETTURA»
«Da sempre pensavo al passo di Agostino “Signore Dio, poiché tutto ci hai fornito, donaci la pace, la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. Tutta questa stupenda armonia di cose assai buone, una volta colmata la sua misura, è destinata a passare. Esse ebbero un mattino e una sera”» (Aldo Rossi)Nel 1990 Rossi riceve il Pritzker Prize, il premio Nobel dell’architettura, entrando così nello “star system” da cui, per profondità di pensiero e per diversità di atteggiamento, si è sempre mantenuto lontano.
Già prima della sua morte, avvenuta nel 1997 a seguito di un incidente automobilistico, ha assistito al proliferare di “scuole rossiane” che si rifanno al suo modo di fare architettura, fiorite in Svizzera, in Giappone, negli Stati Uniti e in molte facoltà d’architettura in italia. Numerosissimi sono gli architetti che devono al suo insegnamento molta parte della loro fortuna (Herzog & de Meuron, Mario Botta, Peter Zumthor, solo per citarne alcuni).
Nonostante fama e successo Rossi ha convissuto, fino alla fine della sua vita, con un certo senso di malinconia e di inquietudine. Una solitudine che trovava riparo nel mondo delle cose e nei luoghi amati. Una dolorosa acutezza che si esprimeva in quella «sorta di grafia tra il disegno e la scrittura» dei bellissimi Quaderni Azzurri, e nella pratica dell’architettura, che lui stesso definiva «uno dei modi di sopravvivere che l’umanità aveva ricercato, uno dei modi di esprimere la sua fondamentale ricerca della felicità». «Credo sempre che, nella vita come in architettura, se cercavamo una cosa non cercavamo solo quella. (…) Ma è certo che il compimento andava oltre l’architettura e ogni cosa è soltanto la premessa di ciò che vogliamo fare».