Il prossimo 10 agosto Vittorio Gregotti compirà novant’anni (nato il 10 agosto 1927 a Novara). Ha attraversato tutto il secondo ’900 e questo primo ventennio del XXI secolo dando un grandissimo contributo all’architettura italiana ed internazionale. Dagli inizi, nel lontano 1947, allo studio parigino, passando negli anni ’50 per lo studio BBPR, fino al CIAM con Le Corbusier, Walter Gropius, Henry van de Velde, fino al suo studio milanese “Gregotti associati”.
Grandi progetti – come l’area Bicocca a Milano – ma anche lavori controversi – come il quartiere ZEN di Palermo, tantissimi scritti che hanno contribuito alla formazione di intere generazioni di studenti di architettura e futuri architetti, da “Il territorio dell’architettura” per Feltrinelli nel 1966 e “Questioni di architettura. Editoriali di Casabella” per Einaudi nel 1986, passando per “Il disegno del prodotto industriale. Italia [1860-1980]” per Electa nel 1986, “Dentro l’architettura” per Bollati Boringhieri, nel 1991, “Identità e crisi dell’architettura europea” (Einaudi, 1999) per arrivare a “Contro la fine dell’architettura” pubblicato nel 2008 per Einaudi.
Proprio a ridosso dell’annuncio della chiusura del suo storico studio di via Bandello a Milano, ci interessa proporre la lettura di un interessante articolo-intervista di Francesco Erbani, apparso il 12 luglio su Repubblica.it
Vittorio Gregotti si racconta e, con estrema lucidità e disincanto, esprime il suo pensiero sull’architettura o su ciò che di essa resta.
Vittorio Gregotti: “L’architettura non interessa più a nessuno”
Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni: “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”
di Francesco Erbani.
Vittorio Gregotti ha chiuso il suo studio d’architetto. Il 10 agosto compie novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico. “L’architettura non interessa più”, dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. “Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi”.
E niente più?
“Niente più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine”.
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
“Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso”.
Dove l’ha appreso?
“Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara “.
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall’iperspecialismo alla tuttologia.
“Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica”.
Studiava architettura, ma non le bastava.
“La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione”.
E i rapporti con gli scrittori?
“Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto”.
Comunque sempre pochi architetti.
“Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico”.
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
“Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi”.
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
“Il postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale”.